venerdì 30 marzo 2012

How do you kill deathless Max


Non credo che capirò mai la prepotenza fine a se stessa. Spesso mi comporto prepotentemente, ma di solito ho sempre un buon motivo per fare quello che faccio, anche se la gente non lo capisce o non gli balza agli occhi. Infatti, ciò che mi differenzia da bulli e scagnozzi vari è che tendo a fallire un numero statisticamente inferiore di volte. Nessuno vince sempre, agire razionalmente è la cosa più saggia che mi venga in mente e non mi sento così saggio.

È per questo che non comprendo appieno Jack. Non comprendo le ragioni del suo ritorno, ho dato per scontato che il mio compito con la nave fosse concluso. Ora passo le giornate in quel forno che chiamiamo sala macchine e non parlo con nessuno. Sono stato il capitano della Almost Home nei suoi momenti più duri e l’ho portata sana e salva su Safeport ogni volta. La gente ora parla dei Dust Devils, parla di quello che hanno fatto.

La sua assenza mi ha distrutto, ma la sua testardaggine mi sta facendo superare quella disperazione. Questa è la verità, sono cambiato che mi piaccia o meno mi sono spinto troppo oltre, la mia mentalità ora è questa. Jack dice che gli attacchi diretti fanno parlare di noi. Non è esatto. Sono le vittorie che fanno parlare di noi. La gente, quella a cui importa di noi, è stanca di sconfitte.
Attaccare l’Avenger nella zona di Hall Point è un errore, sulla base di ciò che sappiamo. Max, qualunque significato vogliamo dare a queste tre lettere, utilizzerà l’evento come una scusa per mandare tre navi, la prossima volta.

Jack non si è posta nelle condizioni giuste per affrontare questo genere di mentalità. Pensa di combattere con un generale, che si può far scoraggiare da una sconfitta, dalla perdita di uomini, o i cui fondi possono venir tagliati per sprechi evidenti. Max è diverso, ha fondi propri e poteri decisionali illimitati. Una pazienza illimitata. Esiste da ottant’anni, ha visto scoppiare e finire una Guerra che ha devastato tutto il resto del ‘Verse. Una nave, dieci navi, non cambiano assolutamente nulla dal suo punto di vista.
Per la prima volta, provo la sensazione di avere a che fare con qualcosa fuori dalla mia portata. Questa organizzazione è stata affrontata da decine e decine di menti, prima della mia, ed ha prevalso, tutte le volte. Sul piano della logica, c’è una scarsissima probabilità di batterli o anche solo di sorprenderli.

Quindi qualsiasi cosa io faccia, dovrò agire sull’unica cosa alla quale, per scelta, hanno rinunciato.

sabato 24 marzo 2012

Destructuring of a Requiem


L’arma con cui è stato ucciso un mio amico è…ben fatta. L’ho rubata a Ryan Gibbs dopo averlo ucciso. Gli ho sparato tre colpi nella schiena, poi quando non si muoveva più gli ho sputato in faccia. E gli ho rubato l’arma con cui ha ucciso Buck.

L’ha ucciso. La forma della canna garantisce che il colpo viaggi a 1200 m/s, è un’arma…ben costruita. Ha un caricatore da 16 colpi. E lui lo ha usato su un vecchio, gli ha…gli ha sfondato il cranio. E io guardavo mentre lo faceva.
Buck Blackbourne era una brava persona. Non so che cosa dire a Roona Mei, a Eivor, a Eir. A Jack. Non so che cosa fare.  Il calcio della pistola è disegnato per essere…comodo. Gibbs era…comodo, mentre massacrava Buck. Ma non era comodo mentre gli sparavo.
Ha provato a questionare. A dire che gli stavo sparando alle spalle, senza combattere. Dopo aver sparato ad un vecchio in piena fronte, ha detto questo. A me.

Ha sbagliato persona, se pensava di parlare con un soldato, con qualcuno per cui l’onore della battaglia ha ancora un senso. Ha sbagliato persona. I primi due colpi sono stati di rabbia, il terzo…era odio.
C’è una lama retraibile all’interno dell’arma e un selettore per passare fra un rateo di fuoco automatico ed uno semiautomatico. E un tubo lanciagranate. È l’arma definitiva della marina Alleata. L’arma con cui li ucciderò tutti. Dovessi prendere un proiettile da questo caricatore e ficcarlo nella testa di ciascuno di loro a mani nude…

Sono salito sulla nave, dopo…quello che è successo. E ho vomitato. Ho già visto morti ammazzati, anche miei amici. Non è l’orrore che ha questo effetto. Credo sia l’odio.
È veleno, intossica il sangue, corrode gli organi. Lo sento, lo…sento. Non respiro bene, non riesco a bere, ho bisogno di aria, ma questo è un fottuto pezzo di ferro nel nulla, non c’è aria vera! Non si può morire qui, non si deve morire qui. Non è nell’ordina naturale delle cose, così come l’odio che mi avvelena.
Mi chiedo se Buck avrebbe voluto che pregassimo per lui. Mi ricordo il funerale di Easy Pete, lui è andato a rendergli omaggio, ma io non sono…capace. Roona Mei, lei forse…lei forse saprà organizzare questa cosa.

Scrivo agli altri cosa è successo. Gli scrivo che Buck è morto e che io ho ucciso Gibbs. Poi chiudo tutto, la porta, la luce, resto al buio. Sapevamo che sarebbe potuto succedere, sapevo che qualcuno ci avrebbe ucciso. Ma ero io che dovevo morire, ero…io. È me che la gente odia, non Buck, lui è benvoluto da tutti, ha…aveva…una faccia rispettabile, non…sono io la canaglia di Safeport.
Nel silenzio, al buio, la mia mano sfiora qualcosa. È il telecomando di una bomba, l’abbiamo costruita non più di una settimana fa. So che cosa devo farci. Resto in silenzio, sfiorando il pulsante, senza premerlo, ma pensando, pensando a Buck e a Gibbs, steso a terra.

In silenzio, mi ritrovo a pensare a Buck appostato alle porte dell’inferno con un fucile, ben piazzato a terra. 
Preparati vecchio: sto per spedirti un bel po’ di giacche blu.

domenica 18 marzo 2012

Brown Partisan

Ho scoperto che sono bravo a parlare con la gente. 

Passo molto del mio tempo in silenzio o a trattare male la gente, così non faranno domande e la conversazione sarà breve. Di solito.
Ieri sera però sono entrato al saloon, ho chiesto scusa se turbavo il meritato riposo di quei quattro rancheri che il sabato sera vanno a rilassarsi lì e ho cominciato a parlare. A parlare della Guerra, di attivismo, di proteste contro l'Alleanza. È andata meglio di come pensassi. 

Ci sono state contestazioni, ma niente che abbia scalfitto il messaggio che volevo mandare. Non è questione di dialettica, forse i miei concetti sono veramente quelli giusti, forse la gente non riesce a contraddirmi perché parlo di cose sensate. Un altro capitano sarebbe sicuro di questo, io spero solo di aver fatto breccia nella testa di uno o due dei presenti. Mi sono esposto in prima persona, ho parlato con loro, il Crazy Horse Saloon ascoltava, non ho dovuto menare le mani, nessuno è intervenuto.

Non sarà sempre così semplice, ma ieri sera…ieri sera lo è stato ed è stato bello. Mi sarebbe piaciuto che Jack mi avesse visto, sarebbe stata fiera di me, per una volta. Non ho neanche bevuto la mia birra, l’ho pagata però.
Non diventerò un fottuto oratore, non cambierò modo di rivolgermi al mio equipaggio o a chi rompe le palle ogni volta che mi incontra, non sarò più tenero, ma…ma quando parli con la gente capisci meglio te stesso. E io ho capito che cosa sono, ieri sera.

Non sono un soldato, l’ho ripetuto fino alla noia. Per essere un soldato devi riconoscere il valore della gerarchia e dell’ordine e io non lo faccio. Neanche James, che potrebbe esserlo, lo fa e rimane solo un tagliagole e io non sono neanche questo. Così come non sono un fottuto eroe, nessuno scriverà di me sul giornale, non mi appiccheranno mai una medaglia sul petto e non si ricorderanno il mio nome né con paura né con orgoglio.

Non ho orgoglio, né avidità, né valori da sbandierare. Fino ad ora sapevo solo questo, quello che non ho…ma ora so anche quello che sono.

Sono un partigiano con una giacca marrone, che si nasconde fra gli alberi e aspetta il suo nemico, lo affronta prima nella sua testa e si prepara a combattere anche se non è nato per quello. Il partigiano non è nato vincente, lo diventa a forza di prendere botte. Non è un uomo senza paura, è uno che la paura la conosce dannatamente bene e nonostante questo, si impone di non tremare al punto di non poter sparare dritto. Fa quello che è necessario per la causa, mangia male, dorme peggio, se la da anche a gambe se serve a combattere un’altra volta. Parla con la gente, trova altri che combattano con lui, va avanti così.

E…in silenzio…aspetta che lo vengano a prendere, perché lo sa, lo sa che è quella la fine, prima o poi vengono a prenderti. E a quel punto…se ne porta dietro quanti più è in suo potere, così che oratori, soldati, eroi e tagliagole continuino il loro balletto e si dimentichino che lui…c’era.

sabato 10 marzo 2012

Black Strawberry

Una ragazza al ranch mi ha offerto un cestino di questi strani frutti. Sono neri, simili alle ciliegie, ma diversi. Sembrano più...salati o di sicuro non dolci. Dice che ci fanno l'olio. Io non ho mai saputo con che si fa l'olio naturale, su Safeport l'olio è una miscela di acidi grassi prodotti chimicamente che usi per soffriggere quello che già di per sé ti avvelenerà il sangue. Qui su Greenfield lo fanno con queste...ciliegie nere. Me le ha regalate, perché pensa che io abbia salvato il ranch da una creatura mostruosa che uccideva il bestiame, ma...non è così.

Io ho ucciso un compagno di Guerra, solo che non l'ho visto in faccia, perché qualcosa lo ha cambiato. Anche lui era...una ciliegia nera. Cioè, era un uomo, ma...lo hanno cambiato quindi tutti lo vedevano come qualcosa di diverso. Un mostro. E anche io ci ho creduto, ho creduto fermamente che ucciderlo era la cosa giusta da fare, finché non ho capito che era un mio compagno. Non saprò mai il suo nome, non saprò mai se aveva scelto quella vita o se era stato scelto.
Sono buone queste ciliegie nere, molto più buone di quello che penseresti. Il problema è che non tutti lo capirebbero. So che Jack avrebbe saputo spiegarmi come si fa l'olio a partire da queste cose, ma io non riesco proprio a immaginarmelo. Mi fa ridere il modo in cui la ragazza mi guarda, anche quando si è allontanata. Credo che al Ranch si parli di noi come "gli amici poco raccomandabili del dr. Blackbourne". E credo sia una definizione calzante.

Non ne mangio molte, ma mi chiedo come ho fatto a vivere tutta la vita senza assaggiarle. Mi chiedo anche se sono sempre esistite, se c'erano sulla Terra-che-fu o se le abbiamo create noi, come la bestia, come...come parte di me. Non riesco a capire se è una cosa giusta o sbagliata, le ciliegie nere sono buone. Io sono buono? La creatura era buona e io l'ho uccisa. Questo fa di me il cattivo, necessariamente. Anche Gibbs lo dice e tutti lo ascoltano, ma io non mi sento il cattivo. Jack avrebbe saputo spiegarmi come si fa l'olio e...e se sono il cattivo. Si, lei lo avrebbe saputo.
Suo nipote ha preso la lettera. Non so cosa ci fosse scritto, gli ho lasciato il mio contatto cortex, non so se ho fatto bene o ho fatto male.

Ho visto Eir usare la macchina fotografica che ho ideato. Nessuno sa che l'ho creata io, ed è strano. Rientra nell'ambito delle cose che farebbe una ciliegia nera, penso, una ciliegia nera nel Core. E nel Rim e ovunque. Tutto sommato sono diverso da questi strani frutti salati. Loro crescono nella terra, io questo pianeta verde non lo capisco. Non capisco le loro leggi, le loro buone maniere, non capisco la vita di campagna e il silenzio. Non capisco niente del posto dove crescono queste ciliegie nere.

sabato 3 marzo 2012

The eternal assembly of a unfinished....something


Ho già fatto queste cose, pattugliare Hall Point. Ormai la conosco piuttosto bene, intendo…prima di iniziare a lavorarci regolarmente. Lo Skyplex funziona per flussi di gente, quello che bisogna fare è seguirli e guardare le facce. Ormai riesco a farlo anche mentre controllo la posta. C’è l’uomo d’affari che di solito si rinchiude in camera una notte con due accompagnatori e che…ha una fede al dito. C’è la…ehi, quella non la conosco, me la ricorderei con quel…ok, passiamo oltre. C’è il pilota perennemente ubriaco…penso che la sua nave sia partita tempo fa. E poi c’è…


Le lettere mi sono cadute tutte. Conosco questa calligrafia. Intendo la calligrafia della lettera che ha fatto cadere le altre. Non voglio…ah…non voglio stare qui, non voglio…voglio aprirla, ma non voglio aprirla qui. Non…oddio. Oh…no, no, calma, James ha detto che se le fosse successo qualcosa mi avrebbe avvertito. No, io. La. Nave. Vai alla nave, non c’è nessuno ora. Vai.
La Almost Home è allo spazioporto. Un ascensore e un corridoio mi separano dalla nave. In ascensore rigiro la lettera fra le dita un paio di volte. C’è qualcosa dentro, più di un foglio, anche un laccio, un filo, qualcosa. Sto aggrottando la fronte, lo faccio spesso. Voglio fumare, ma non ora, fumare vorrebbe usare una mano sola per tenere la lettera. È ridicolo, ma non voglio tenerla con una mano sola.

Non c’è timbro, non c’è niente. È stata consegnata a mano. Ok, io…ah…potrebbe esserle successo qualcosa. Potrebbe aver saputo dei casini che stiamo passando? Non so se la voglio aprire. Cioè so che la voglio aprire, ma vorrei sapere che c’è scritto prima di aprirla. Quanto ci mette questo ascensore? Ho freddo. Dovrei aprirla adesso, perché sto…le porte si aprono, cammino in fretta. Non fumare, vai alla nave. Ricordati il pod, non sbagliare. 
La stiva si apre, mi infilo all’interno e quando chiudo il portello dietro di me resto al buio. Riesco a muovermi lo stesso, so com’è fatta la nave, ma…apro la lettera, al buio. Non posso leggere quello che c’è scritto, non posso…non leggo. Due fogli, uno legato. La stiva manda un forte odore di chiuso e muffa. Devo farla…devo leggere. Al buio non posso quindi scendo in sala macchine e mi siedo sull’amaca. I fogli sono ancora nella busta, io vorrei, vorrei leggere.

Qui posso fumare. Una sigaretta, mi rigiro i fogli fra le mani, li tiro fuori. Mi chiedo perché ne abbia legato uno. Dovrei leggere l’altro per saperlo, lo apro. Mi piace la sua calligrafia? Dovrebbe piacermi, no? Mi piace. Ma odio che sia solo…una calligrafia. Solo linee, solo…lettere su un foglio. Non leggo, non…sto tossendo? Io non tossisco mentre fumo. Spengo la sigaretta e sento un paio di assistenti che scendono le scale. Chiudo i fogli, li infilo nel browncoat ed esco senza parlargli. Salgo nella mia cabina.

Mi sfilo le armi, tutta la cintura e anche l’accetta nel fodero agganciato alla schiena e mi sdraio sul letto. Ho letto le prime parole in sala macchine. Sta bene. Ok, sta bene, ok. Leggi.
Le manco. Grazie a…cioè, no, è una cosa brutta! Non dovrei…sono contento che io le manchi? Che vuol dire, che sono…ah, accidenti! Rileggo tutto fino a quel punto, mi manca. Mi manca, rileggo quella parte. Non va bene, la sto deludendo e mi manca e…leggi.



Appoggio i fogli sul tavolo e chiudo gli occhi, restando in piedi. La mia testa fa rumore. Avrei voluto che scrivesse di più su qualcosa? Non lo so. Non. Lo. So. Cioè, so com’è, non…non so cosa…so come sono io. E anche lei lo sa. Sa che…aiutare gli altri è importante, sa che aiutarla è…è tutto. Tutto quanto. No, non è tutto quanto, ma sa che chiedere a me qualcosa…la complico, la giro, la rigiro...continuo a complicarla, a non chiamarla con il suo nome. Questa cosa che c'è che...sta qui, nella testa, ma dentro...non nel cervello, più...dentro, più dentro del...ricordo, più...più dentro. Questa cosa, ha un nome e io...la complico per non darglielo.


Mi manca.